Recita dell’attore Vecchiatto

Una lapide posta sopra il portone del municipio di Rio Saliceto riporta queste parole:
“RIO SALICETO – che cacciò il mostro nazifascista – da queste terre da queste case – da questo pane da questo sangue – GIURA – ai sette figli annientati nei lager – ai ventuno caduti combattendo – per la certezza dello splendido aprile – di lottare unito come ieri come sempre – perché il mostro non torni”. Invece nel teatro comunale “Montanari” le balaustre dei loggiati contengono pannelli lignei del pittore Luigi Pillitu e non raffigurano mostri ma musicisti e commedianti. È proprio sul palcoscenico di questo teatro che, nel 1988, il grande attore Vecchiatto e sua moglie Carlotta salgono per l’unica (ed ultima!) recita italiana.
Ma le cronache riportano che nel 1988 il teatro Montanari era chiuso al pubblico! Chiuse infatti nel 1970 e riaprì completamente restaurato nel 1993, anno della morte di Attilio Vecchiatto. (Beffardo destino!). Dunque Vecchiatto, nell’ormai lontano ’88 sbagliò davvero luogo, come spesso lui ripete a sua moglie nel testo di Celati?
La mia ipotesi è che forse, l’impresario Normanno Gobbi organizzò la recita all’interno dei locali del centro culturale intitolato all’industriale Wildmer Biagini e non nel teatro comunale!
cco spiegata l’assenza totale di pubblico, il vuoto siderale di fronte al quale si ritrovarono i due attori in quella sera del 1988. Ma in quel teatro vuoto Vecchiatto capì e a modo suo dichiarò che la fine dell’arte drammatica apriva la strada al il ritorno del mostro. (Profetico Vecchiatto!).

CREDITS

Di Gianni Celati
Con Claudio Morganti ed Elena Bucci
Produzione Gli Scarti

MEDIA

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PRESS

“Il duetto contrappuntistico euforizza talmente l’aria attorno che la sala finisce col vederli come e dove non sono: nell’agitazione di una disastrosa recita crepuscolare dove il leggio è un supporto scenico trasfigurato, un elemento sicuramente presente nello scenario desolato del teatro di Rio Saliceto. Quando si fermano, arretrando sul fondo del palcoscenico, dove siedono e bevono uno di fronte all’altra, nella pausa conclamata rifluisce anche il respiro degli spettatori che, sorseggiando il vino e girando la testa, si scoprono di colpo avventori di un’osteria o di una cave parigina degli anni cinquanta.
Ma la cosa più sorprendente è come questa progressione che ha visibilmente la morte davanti a sé cresca allo stesso ritmo in luce e in derisione, in riso e in verità. È la verità stessa a rendersi ridicola nelle giullaresche intermittenze di una prolusione in cui la vita più ottusa fa da controcanto alla grandezza più accecata…
Prima ancora di prestarle la sua nota maestria attoriale, Morganti le ha portato in dono un’adesione profonda, diventando il ventriloquo di Vecchiatto e il coautore di un epitaffio post-teatrale che vibra anzitutto nelle corde del suo pensiero. La sua interpretazione trapassa dal registro ambivalente dell’ironia a ciò che è ormai rarissimo: uno sfogo di paradossale buonumore, un sorriso anarchico, confuso nel suo classico ringhio, sembra suggellare con un empito di simpatia la fine di un mondo che non può finire. E che alle soglie del buio stringe (come nel racconto di Joyce The Dead) i vivi e i morti in un’ultima immagine. Così come la Bucci fila dai suoi contrappunti la tela lirica di un personaggio esemplare perché, al di là della dialettica tra l’arte e il mondo, è disegnato con un dito sulla terra. Carlotta può ancora pensare che smettendo di parlare agli uomini, che non lo vogliono ascoltare, il teatro possa predicare alle oche, rivolgersi all’aperto dell’animalità, diventare una modalità del linguaggio della terra. Sia come sia, non smetterà di parlare. Nel regno dell’efficacia, imparerà a fallire meglio.

Attilio Scarpellini – Doppiozero/strong>

LaRecita dell’attore Vecchiatto è una delle poche felici incursioni della letteratura nella scrittura teatrale di questi anni, che vedono ancora troppo spesso distanti il mondo del teatro e quello dei libri.
Lo spettacolo è un vero gioiello e Elena Bucci fornisce a Vecchiatto-Morganti un rimpallo magnifico.

Graziano Graziani – L’Internazionale

È una piccola gemma, non priva d’insidie, questo Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, titolo che sembra quello d’un film di Lina Wertmüller, obliqua parabola che Gianni Celati dà alle stampe a metà anni Novanta. Protagonista della pièce, una coppia d’attori “vecchia maniera”, da compagnia di giro, la carriera congiunta che dura da, son loro a ribadirlo, quarantacinque anni: lui, Attilio Vecchiatto, artista drammatico, attore scespiriano e poeta (il volume di Celati contiene una cinquantina di sonetti attribuiti al personaggio); lei, Carlotta, moglie paziente e sfalsata, compagna d’arte e d’amore, nonostante i naturali (!?) smottamenti d’una lunga vita congiunta. Ed è un minuzioso omaggio all’arte della parola, al teatro, nell’accezione morg’hantieffiana del termine, forma espressiva residuale e ineffabile che rifugge i grandi numeri, la grande scala, distante, ma non per forza né sempre (opinioncina di chi scrive), da quel che indichiamo come spettacolo.

Si entra nella saletta Ryszard Cieslak e troviamo Claudio Morganti a far da anfitrione: in prossimità della prima fila, piccoli tavolini da bar; bevande, arachidi, ordinari generi di conforto (!) tanto diffusi nella barbara consuetudine odierna denominata apericena. Poco distante, Elena Bucci; ma in ombra, sfuggente, donnescamente ritrosa, forse già nel personaggio, come suggeriscono la stoffa luccicante del vestito blu e i lunghi guanti bianchi a fasciar mani e avambraccia. L’attore, per contro, celia coi convenuti, ne auspica la sistemazione, il silenziamento dei relativi apparecchi. Accompagna, comunque, con sorridente cortesia il misurato pigolìo degli astanti.

Recita-dellattore-IMG_7794-C-30x-(www.centroperlaricercateatrale.it)Il passaggio è punto accennato, impercettibile, eppure palpabile: precede il lento sfumar di luce a isolare i due lettori approssimatisi ai leggii. Inforca gli occhiali, Morganti ormai Vecchiatto, lunghi capelli raccolti a chignon, Braveheart casual vestito, per dar la stura alle pedantesche tirate dell’attore Attilio contro i mala tempora correnti, il loro chiacchiericcio rumoroso, la loro volgarità diffusa e interstiziale. Lo modera Carlotta, donna dabbene, e ragionevole, alle prese con le idiosincrasie d’un vecchio (l’etimologia anagrafica ci par evidente), ritornanti, prevedibili e che, nella puntuale circolarità, sfumano da sottoscrivibili argomenti a rincoglionite fissazioni.

Andare o no in scena, si chiedono i due, nella prospettiva d’una platea vuota, ove una sola spettatrice (munita di sporta) è sopraggiunta. Sperduti in un teatrino provinciale, residuo d’un arte che fu, reperto quasi minerale piantato nel mezzo d’un paese ora produttivo, distrutto e distratto dall’ottusa ignoranza d’un benessere facile (in vent’anni anche questo è mutato!), troppo facile. La muliebre ragionevolezza e l’inamovibile resistenza virile dan vita a un godibile duello, che Elena Bucci risolve con una recitazione minuziosa, giocata su variazioni mimiche finissime, in attrito alla crassa risolutezza di lui.

Lo spettatore è un intruso, that is the question, là dove si voglia fare teatro. Un intruso irritante, eppure irrinunciabile (a meno di non voler trarre conseguenze estreme: pensiamo a Grotowski, spirito aleggiante qui a Pontedera), polo e cartina di tornasole per quel che s’agita in scena e promana dal buio. Lo stesso buio che tutto inghiottirà, a fine recita, a fine vita, a fine tempo.
Quel buio che il teatro, il vero teatro, conosce e (quasi) racconta. Come nel caso d’una piccola gemma in uno sperduto spazio scenico di provincia.

Igor Vazzaz – losguardodiarlecchino.it

“L’immaginario che lo ammanta è di una sconcertante e meravigliosa varietà. Dall’amorevole bisogno del riconoscimento pubblico («la frigidezza polare d’un pubblico ottenebrato dal comfort») al contraddittorio confronto con la critica («questi giornali pieni di nomi, nomi nauseabondi»), il mestiere dell’attore, inutile anche solo provare a negarlo, è qualcosa di unico e indefinibile.

Seguendo un percorso che dall’Umanesimo va al Contemporaneo, se non più genio solitario e inadeguato, trascinatore di folle o strenuo difensore della coscienza contro ogni riduzionismo, ancora oggi si immagina l’artista come colui che, mai piegato alla ricerca del consumo, riesce – con sincero slancio vitale – a esprimere la propria tensione e visione estetica attraverso intuizioni (le opere) capaci di appagare (seppur momentaneamente) l’ansia e la sete di trascendenza dalla miseria del reale in un autentico incontro con essa.

Condividendo in parte con chi la riduce a vocazione, chi a tecnica, chi a qualcosa che «si impone al proprio autore» (Psicologia analitica e arte poetica del 1922, Carl Gustav Jung), ci sentiamo di definire il processo creativo come demiurgico di concrete comunità popolari, artefice di esperienze condivise donate all’intimità di ognuno, esercizio di soggettività naturalmente collettive. Senza pubblico non esiste artista e, ci piace pensare, che il pubblico si raccolga attorno a un’artista quando lo riconosce, che l’arte per l’arte sia pura ipocrisia. Ed è in questa prospettiva che risulta illuminante ed esemplare la sinergia tra il testo di Guido Celati e le atmosfere connaturate al progetto A teatro nelle case del Teatro delle Ariette, location straordinaria per come contribuisce a determinare un ambiente di raccolta comunione tra gli astanti, partecipanti di un conviviale banchetto a base di arte, uva, vino e mandarini.

La struggente e incessante ricerca del bello, il poetico sforzo di decostruzione del reale, il sospeso abbandono nei confronti di un mondo vissuto nella continua tentazione estetica, condizione della quale sentirsi più pastori che custodi, sono elementi sussunti in una adamantina interpretazione da questa Recita dell’attore Vecchiatto nel Teatro di Rio Saliceto.

«Una povera oca che mostra il deretano in televisione è considerata centomila volta più importante di Dante, Shakespaere, Leopardi, mi dica lei cosa c’è da sperare?», «vuoi che dia in pasto la mia arte drammatica a una campagnole nel vuoto siderale», esprimono il tragico sarcasmo del mestiere dell’attore attraverso una sontuosa intesa che Elena Bucci e Claudio Morganti esibiscono in un riuscito contrappunto ritmico, melodico e scenico, complice un incedere offerto isterico e dolce, emotivo e acre, nell’attesa che qualcuno entri in sala per assistere alla leggenda che Vecchiatto, sbagliando, fosse entrato in luogo in realtà chiuso al pubblico, dunque comprensibile che «ancora non fosse venuto nessuno […] nessuno nessuno».

Recita dell’attore Vecchiatto nel Teatro di Rio Saliceto è un reading delicato e struggente nel suo alternare momenti sussurrati e nevrotici, gestualità ironiche e drammatiche, esaltato dalla destrezza di interpreti in totale sintonia nel raccontare «l’unica recita italiana d’un glorioso attore classico», l’ultima performance di Attilio Vecchiatto e della moglie Carlotta nel «bel teatrino, anche antico, con i palchi».

Un simposio per occhi e orecchie, oltre che per la gola. Chapeau.

Daniele Rizzo- persinsala.it

L’attore è un’eco del buio. È l’ombra di un personaggio che lo spettatore tiene in vita di un niente, anche se è uno, anche se è solo una donna di campagna con la sporta. E di un niente, infatti, rimangono accese le luci sopra i tavolini imbanditi con acqua, vino e acini d’uva nei sotterranei dell’ex istituto Magnolfi di Prato. Rischiarano quanti (tanti) danno corpo all’ascolto della Recita dell’Attore Vecchiatto nel Teatro di Rio Saliceto, alla dolce barricata di parole contro le tenebre di Attilio e sua moglie Carlotta, letti e interpretati con talento di felice leggerezza da Claudio Morganti ed Elena Bucci, tra muri scrostati, anneriti da troppe notti senza stelle, passate e non ancora finite.

In prima nazionale a Contemporanea Festival di Prato, il nuovo lavoro di Morganti sul senso del fare coppia con il teatro, sul mestiere di attore e quello di marito e moglie, sul genio, l’insuccesso, la dignità dell’ “uscire di scena”, prende sguardi e respiro da un racconto di Gianni Celati. Attilio Vecchiatto (1910-1993) è stato un attore italiano di fama internazionale, ammirato da protagonisti assoluti come Laurence Olivier o Jeanne Moreau. I suoi adattamenti shakespeariani ottennero successi e gloria in tutto il mondo, eccetto che in Italia. A 78 anni, insieme alla moglie Carlotta, conosciuta quasi mezzo secolo prima a Buenos Aires durante la tournée di un Romeo e Giulietta, riuscì a essere scritturato solo nel piccolo teatro di Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia.

I pensionati hanno una posizione assegnata dallo Stato, la pensione appunto, a misura della loro condizione fisica e mentale. E la vecchiaia dell’attore? Qual è il suo Stato? Per la Recita dell’Attore Vecchiatto si direbbe la resistenza delle parole. Tutto è freddo, è gelo, la fine fatta a Rio Saliceto coincide con le cantine degli inizi di cui parlava trent’anni fa anche Eduardo De Filippo, a Taormina, sul palco del suo addio (al) pubblico, l’Italia è il Paese della vergogna umana e i giornalisti sono “frasari del disgusto” (Vecchiatto ce l’ha in particolare con il “Corriere della Sera”), ma gli attori riescono ancora a dire parole di verità, rara più dell’araba fenice. A patto, però, che qualcuno li stia a sentire.
Claudio Morganti dà ad Attilio Vecchiatto la forza irrequieta di un profluvio di coscienza, la Carlotta di Elena Bucci è un argine alla piena del marito, il ritornello che sottolinea il suo mondo di strofe che non vanno mai a capo: lui è scatenato contro il tempo che ancora gli rimane, lei è fiera della loro biografia, che è strada insieme. Morganti e Bucci leggono e ti muovono paesaggi nella testa, senza, all’apparenza, voltare pagina sul leggio, come se quei fogli servissero solo a ricordare che c’è stato un tempo in cui Attilio e Carlotta sono esistiti e quel tempo è per sempre lì.

“Ci guardano come matti, non capiscono la vecchiaia”. “Ci guardano come degli spaventapasseri”. Il dramma della Recita dell’Attore Vecchiatto è che il pubblico è necessario all’attore come il bianco della carta al nero dell’inchiostro, ma al tempo stesso non lo può comprendere, non può capire come si sente, cosa prova davvero. Se gli spettatori non ascoltano bisogna impazzire al più presto e la pazzia della scena si chiama personaggi, costretti a fingere, a recitare per vivere. I due allora tornano dove sono venuti, nel buio, scompaiono per cercare un altrove, un’altra parte in cui farsi riconoscere, e si portano dietro solo i loro nomi: Attilio, Carlotta. Claudio Morganti ed Elena Bucci li accompagnano mano nella mano, con la dolcezza di un soffio che spegne una candela. La vita vera comincia fuori di scena.

Matteo Brighenti – paneacquaculture.net

Qualcosa di simile si può dire per La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, testo di Gianni Celati letto (e performato) al Magnolfi da Claudio Morganti (Vecchiatto) e da Elena Bucci (sua moglie Carlotta). E non solo perché attraverso la vicenda di Vecchiatto – un tempo leggenda d’oltreoceano e finito abbandonato da teatri e impresari a recitare in una sala vuota di provincia – è possibile afferrare tanto di quel mondo separato e strano che è quello degli attori, delle loro vite professionali, artistiche, intime, delle interazioni che intercorrono fra esse; le prove, il debutto, il lavoro sul testo, il lavoro dell’attore, in scena e fuori; le relazioni con teatri, impresari, colleghi e con gli spettatori; la quotidianità fatta di fatiche e gli orizzonti vividi di ambizioni, la foga delle tournée e l’insofferenza dell’esilio in provincia, il successo e l’amarezza, la gioia di stare in scena e la rassegnazione di fare un mestiere che ormai interessa a pochi. I teatri di oggi e di ieri, i loro artisti e attori, il loro pubblico sono destinati a incontrarsi nelle parole dolci e amare di Vecchiatto e della moglie.
E la dimensione (in senso lato) “biografica” non rientra in questo lavoro neanche soltanto perché, facendo un passo più oltre, nelle invettive di Vecchiatto contro il teatro che l’ha emarginato, abbandonato, escluso passa in filigrana un attacco ai tempi che cambiano, maciullando tutto a gran velocità negli ingranaggi di un (presunto) progresso che omologa ogni cosa, costringendo l’umano a ritmi folli e frantumandone la dimensione sociale (riassunto ad esempio nell’aneddoto in cui l’attore si scaglia a prendere a ombrellate le automobili).

Roberta Ferraresi – ltamburodikattrin.com

La coppia nella mise en espace, nella narrazione perfettamente complice dei due Vecchiatto, Attilio e Carlotta, anche coppia nella vita, entrambi attori, entrambi con storie di storie da raccontare a intreccio, in palcoscenico ed in recite letterarie da Shakespeare a Leopardi a sonetti autografi, un groviglio di esistenze vissute, quelle fra i due in un mix fra teatro e autobiografie. Di qua e di là dall’oceano perché Vecchiatto, che si comprende essere attore di rango un po’ sbruffone un po’ intellettuale a fine carriera, mica è un attore improvvisato: lui ha lavorato con Laurence Olivier ed è stato in tournée partito da Venezia per le Americhe, recitando a New York fino a Buenos Aires. Un attore di successo, insomma. Poi, pian piano che si dipana la matassa e forse, il pre-testo che è letterario ma anche e soprattutto teatrale, si incomincia a entrare nella vis tragi-comica del lavoro. A chi si rivolgono i due malcapitati? E di chi e cosa raccontano i due, evidentemente spaesati ma soprattutto a chi? Perché il dialogo fra loro è un moto continuo, un rimpallo, in cui il privato di una coppia agée e comunque assai affiatata di attori si mescola e rimbalza con la loro vita pubblica, teatrale e privata nel passato e nell’hic et nunc.
A chi raccontano la propria storia questi due individui e se a Teatro, ammesso che in un teatro stiano recitando, se non c’è un pubblico? Perché è così: nel plot narrativo-drammaturgico davanti al folto pubblico, in realtà è ad un’unica persona, occasionale, che i due attori si rivolgono. Per associazione ricordano un po’ l’equivalente paradossale di un insegnante che senza almeno un allievo rischia che la classe chiuda, così come il maestro che avrà destino di disoccupato. Perché i due attori si rendono che non c’è nessuno, tranne una signora grassa colla sporta della spesa che forse passa di là, per caso, mentre ogni tanto qualcun’altro si appalesa, per poi sparire. E quindi la recita è con e fra se stessi, una beffarda situazione esistenziale dove non resta che svelare le carte del proprio individuale e reciproco cammino. Professionale e di coppia. Si parte da un copione per il teatro dello scrittore Gianni Celati, dal cui testo, pubblicato da Feltrinelli nel 1996, si evince la drammaturgia della Recita di Vecchiatto. Si parla di meta-teatro, del senso e soprattutto non senso del fare teatro e per ellissi del ragionare sui meccanismi consci e inconsci di chi sceglie di diventare attore-attrice e dedicare, e un po’ immolare, la propria intera vita all’arte del palcoscenico. Soltanto una macchina affabulatoria raffinata e una tecnica attoriale immensa unita ad un affiatamento prodigioso dei due attori Claudio Morganti ed Elena Bucci avrebbero potuto restituire in sintonia divertente e insieme profonda una complessa e plurisemantica struttura testuale creata da Celati, che riesce a dare affondo nella stesura del suo testo, in universi storico – sociologici coraggiosi rispetto al nostro Paese sul mestiere dell’attore ma non solo, sull’affacciarsi politico esistenziale che vede i cambiamenti della società fuori dai teatri, solo apparentemente lontani dalla specificità del palcoscenico.
Ma non certo lontani da una pratica di riflessione e denuncia anche tagliente; quale quello che da sempre è stato il percorso artistico di Claudio Morganti come di Elena Bucci. Metafora di un fare Teatro come lente dì ingrandimento di una società, quella italiana dove l’intellettuale ha dovuto e deve (dovrebbe), fare ancora i conti con l’imborghesimento selvaggio privo di scrupoli e l’impoverimento complessivo della cultura nell’irriconoscimento e anche disconoscimento della propria Storia, quella delle proprie radici.

Renzia Dinca- rumorscena.com
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